Non è solo ansia: ascoltare davvero i pazienti
Non è solo ansia. Nel contesto clinico, l’attribuzione rapida dei sintomi a cause psichiche o psicosomatiche — come "stress" o "preoccupazione" — può compromettere sia l’alleanza terapeutica sia la qualità del percorso diagnostico.
Eppure, accade di frequente: il paziente manifesta un sintomo con tono agitato, parole cariche di tensione o con un atteggiamento allarmato. Questo comportamento attiva, a volte inconsapevolmente, meccanismi interpretativi automatici: "È solo ansia."
Numerosi studi mettono in guardia da questo bias comunicativo e diagnostico, che rischia di compromettere la qualità della cura e la sicurezza del paziente.
Osservare oltre l’ansia: il ruolo dell’ascolto attivo
L’ascolto attivo è un pilastro della comunicazione clinica. Secondo Silverman, Kurtz e Draper (2013), ascoltare attivamente significa comprendere il contenuto informativo e prestare attenzione alle emozioni e al contesto in cui il messaggio viene espresso.
“Il paziente comunica sempre due livelli: quello dei sintomi e quello dell’esperienza soggettiva.” - Skills for Communicating with Patients, Silverman et al.
L'agitazione o il tono concitato non sono segnali di scarsa attendibilità, sono indicatori dello stato emotivo. Saperli leggere (senza giudicarli) è fondamentale per una valutazione clinica completa.
Il ruolo della comunicazione non verbale del curante
Il linguaggio non verbale del professionista sanitario ha un impatto diretto sulla percezione del paziente e sull’ansia che manifesta. Può ridurre o aumentare l’emozione che il paziente sta provando o, addirittura, esserne la causa.
Uno sguardo fisso sul monitor (o addirittura sullo smartphone!), un tono meccanico, braccia incrociate o gesti di impazienza possono compromettere la fiducia e inibire la comunicazione.
Al contrario, una postura aperta, il contatto visivo e il silenzio attivo favoriscono l’apertura e riducono la pressione comunicativa.
La letteratura (ad esempio Roter et al., 2006) evidenzia che l'empatia percepita è significativamente correlata a segnali non verbali coerenti con la disponibilità all’ascolto.
Il linguaggio tecnico genera ansia
Il gergo medico, se non accompagnato da spiegazioni comprensibili, rischia di generare allerta e ansia. Per questo il personale sanitario ha necessità di sviluppare la capacità di adattare il registro linguistico nella comunicazione clinica centrata sulla persona (person-centered therapy).
Come riportato nel report dell’Institute for Healthcare Communication, una comunicazione chiara migliora:
la comprensione della diagnosi;
l’adesione terapeutica;
la soddisfazione e la percezione di competenza del curante.
Usare termini tecnici non è un errore. Lo è non verificare che siano stati compresi.
L’ansia del paziente è una reazione naturale, non una diagnosi
L’ambiente sanitario genera fisiologicamente uno stato di attivazione nel paziente (McEwen, 2004). L’ansia è una reazione coerente al contesto di vulnerabilità, incertezza e possibile dolore.
È compito del professionista:
riconoscere questa attivazione come parte del setting;
non lasciarsi influenzare nella valutazione diagnostica dalla forma emotiva con cui i sintomi vengono riferiti (empathy gap bias);
evitare l’etichettamento automatico;
comunicare nel rispetto dell’ansia del paziente.
La fretta comunicativa o l’invalidazione del vissuto del paziente sono tra le principali cause di conflitti relazionali e di scarsa aderenza terapeutica (DiMatteo, 2004).
In sintesi
Il modo in cui un paziente riferisce i sintomi è una parte del quadro clinico, non una scorciatoia interpretativa.
L’agitazione non invalida il contenuto: invita a uno sguardo più attento e umano.
La comunicazione è l'elemento chiave per esplorare i sintomi oltre l’ansia, e creare una solida relazione terapeutica.
Concludo con l’esperienza di M.V. (sì, ha le mie stesse iniziali, ma non sono io!), una mia paziente disfonica: circa un anno fa si è recata in pronto soccorso 2 volte a distanza di pochi giorni, aveva difficoltà a respirare; in entrambi i casi è stata mandata a casa frettolosamente, dicendole che, appunto, era SOLO ANSIA.
M. però continuava a non stare bene e, dopo altri controlli, ha ricevuto la diagnosi di Asma Allergica. Quando me lo ha raccontato le sono venute le lacrime agli occhi e mi ha detto: “Certo che ero in ansia, vorrei vedere chi non si agiterebbe sentendosi mancare il respiro!!”.
Ecco, il mio ambizioso obiettivo è far sì che nessun paziente debba più vivere esperienze come questa, perciò per i Professionisti Sanitari che desiderano migliorare la propria consapevolezza comunicativa nei casi complessi o emotivamente sfidanti, propongo un percorso individuale di analisi retrospettiva:
Check-up comunicativo retrospettivo
Rivediamo insieme una conversazione difficile e individuiamo strategie concrete per affrontarla in modo più efficace, umano e consapevole.